LE ERBE DI SAN GIOVANNI
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Descrizione:
Pianta perenne alta 20-40 cm provvista di un bulbo sottile oblungo attorniato da tuniche intere biancastre membranose e scapo semicilindrico angoloso.
Foglie generalmente 2 basali, ovali-lanceolate, lunghe 10-20 cm e larghe 3-6, munite di un lungo picciolo alato, lungo 5-15 cm di un colore verde brillante, emananti un forte odore agliaceo.
Le infiorescenze, alla sommità dello scapo, si riuniscono ad ombrella di 6-20 fiori, di forma subsferica irregolare di 3-6 cm di diametro. Sono racchiuse prima della fioritura da una spata cartacea intera o divisa in 2-3 lobi, caduca, che non supera la grandezza dell’ombrella.
I fiori sono formati da 6 tepali bianchi lanceolati lunghi ca. 1 cm, più lunghi degli stami e con un peduncolo lungo sino a 2 cm.
Antesi: aprile- giugno
Habitat:
Si diffonde soprattutto nei boschi di latifoglie, luoghi ombrosi ed umidi, e particolarmente nelle vallecole umide in colonie numerose su terreni fertili e ricchi di humus, dal piano fino alla fascia submontana, da 0 a 1500 mt. Habitat prediletto bosco di faggio.
Etimologia:
il nome del genere allium sembra di origine celtica “all” che significa caldo, bruciante, acre, com’è infatti il sapore dell’aglio oppure dal greco allis derivante da chlaina= mantello foderato, per la spata che avvolge l’infiorescenza o per le tuniche che ricoprono i bulbilli. Il nome della specie ursinum = degli orsi, in riferimento agli ambienti boschivi su cui preferibilmente cresce, oppure in base alcune credenze popolari potrebbe derivare proprio dagli orsi, che appena svegliati dal letargo invernale, sarebbero ghiotti dell’aglio ursino, col quale depurano l’organismo rimasto a lungo fermo.
Proprietà ed utilizzi:
Le proprietà dell’aglio orsino sono praticamente le medesime dell’aglio comune (A. sativum) è antielmintico, ma è anche un buon diuretico, stimolante gastrico, antisettico, coleretico (ossia agisce sulle bile) ed è un efficace depurativo disintossicante del sangue. Le foglie fresche sulla pelle hanno proprietà rubefacenti (proprietà di richiamare il sangue negli strati più superficiali della pelle, causandovi una piccola irritazione, ed alleggerendo così l’infiammazione agli strati sottostanti proprio grazie alla sottrazione di sangue. Usato pestato quale cataplasma per lenire gli ascessi ed i foruncoli.
La seguente immagine mette a confronto le tre foglie e i tre fiori, notare i fiori molto diversi e le foglie anche se di forma simile, nel A.orsino presentano un peduncolo che nasce direttamente dal bulbo, mentre nel mughetto sono inserite a diverse altezze sul fusto. Ma è l’odore che toglie ogni dubbio: le foglie dell’ A.orsino odorano fortemente di aglio.
In cucina:
nel periodo primaverile, sono raccomandate le foglie tenere, finemente tritate, per insaporire le insalate o aromatizzare il burro dando un sapore delicato e gradevole alle carni e non così deciso rispetto agli altri agli. Sono inoltre utilizzate per insaporire patate, cicorie, uova, zuppe, brodi avendo cura di aggiungerle all’ultimo momento per apprezzare appieno il loro aroma. I bulbi che si possono raccogliere in autunno possono essere usati come A. sativum.
Molto buono l’olio a base di foglie di aglio orsino da usare quale condimento su patate lesse, pane tostato, pasta e particolarmente consigliato per insaporire piatti di pesce, quali sgombro o merluzzo: frullare l’aglio orsino con l’olio extravergine di oliva, fino ad ottenere un composto omogeneo, condire con sale e pepe e riempire un barattolo con tappo a vite.
Conservare in frigorifero e consumare entro una settimana.
Ottimo sostituto del pesto di basilico, il pesto di A.orsino richiede il 40% di foglie di A. orsino tagliate finemente, una manciata di mandorle tritate, sale e pepe quanto necessita, il tutto completato e ben ricoperto da olio extra vergine di oliva ed infine frullato fino ad ottenere una crema.
Ingredienti:
1 litro di aceto di vino bianco
3 bulbilli di aglio orsino
1 peperoncino piccante
1 Rametto di rosmarino.
Preparazione:
Ridurre le foglie dell’ A. orsino a fettine, il peperoncino a pezzetti ed inserirli nella bottiglia con l’aceto e il rametto di rosmarino. Lasciarli macerare per un minimo di 7 giorni, per un periodo più lungo, maggiore sarà il sapore.
IL NOCINO DI SAN GIOVANNI, chiamato anche NOCINO DELLE STREGHE.
Il nocino è un liquore che ha una tradizione antica nel nostro Paese. La sua storia è legata al giorno diS an Giovanni. Il 24 giugno è infatti la data in cui si raccoglievano le noci ancora verdi (acerbe), ingrediente principale di questo liquore.
La tradizione è legata a un rito compiuto dalle streghe intorno all’albero di noci. Si credeva, infatti, che queste utilizzassero proprio i rami dell’albero di noce per volare. Nella notte tra il 23 e il 24 giugno, una delle notti più corte dell’anno, le noci ancora verdi venivano raccolte a piedi nudi, per dare vitalità alla pianta, nella notte in cui la luce vince sulle tenebre.
Ingredienti
1 kg di noci verdi (24 secondo la tradizione)
1 litro di alcol a 95° per uso alimentare
6 chiodi di garofano
1 stecca di cannella
3 scorze di limoni biologici
1/2 litro d’acqua
500 gr di zucchero grezzo di canna di zucchero
Preparazione
Lavare accuratamente le noci e asciugarle.
Tagliarle in 4 parti uguali e sistemarle in un vaso di vetro dall’apertura larga.
Aggiungere i chiodi di garofano, la scorza di limone, la stecca di cannella.
Attenersi alle quantità indicate, in modo da non alterare il gusto classico del nocino.
Infine aggiungere l’alcol.
Consigli per la conservazione:
Una volta aggiunti tutti gli ingredienti bisogna chiudere il barattolo e metterlo a macerazione per un periodo di almeno 45 giorni. Bisogna scegliere una posizione parzialmente soleggiata, ad esempio davanti a una finestra che in alcune ore del giorno prenda il sole diretto.
E’ molto importante agitare ogni tre giorni il barattolo, per non far depositare le noci sul fondo, ed estrarre al massimo tutto il contenuto in principi attivi delle stesse.
Con il passare del tempo il composto inizia a diventare scuro, quasi nero, il colore tipico del nocino.
Trascorso il periodo di 45 giorni preparare lo sciroppo con l’acqua e lo zucchero.
In una pentola fate sciogliere 1/2 kg. di zucchero in mezzo litro d’acqua, cuocendo a fiamma bassa in modo che non si addensi formando il caramello. Quando lo zucchero è completamente sciolto, spegnete la fiamma e lasciatelo raffreddare.
Nel frattempo filtrare il composto di alcol aromatizzato e noci, utilizzando un colino a maglie strette, in modo da separare la base del liquore, dalle noci e dagli aromi.
A questo punto aggiungere lo sciroppo e mescolare accuratamente, ma delicatamente, in modo da ottenere un liquore omogeneo.
Il NOCINO è pronto per essere imbottigliato, utilizzando bottiglie di vetro, possibilmente scure.
Una volta imbottigliato conservarlo in una dispensa per un periodo di 4 mesi.
E’ importante che sia un luogo fresco e al riparo dalla luce del sole.
Il nocino, secondo la tradizione, è pronto per essere consumato nel periodo di Ognisanti.
Come gustare il nocino:
Il nocino è un liquore dal gusto intenso, si presenta con un colore molto scuro e una consistenza abbastanza densa. E’ ideale come digestivo di fine pasto, essendo utilizzato anche come tonificante e per i disturbi del fegato. Può essere consumato sia a temperatura ambiente che fresco, dopo un breve passaggio in frigo.
Non va assolutamente servito ghiacciato, quindi non va tenuto in freezer.
Personalmente credo che sia il liquore più buono, apprezzato e utile che possiate offrire ai vostri ospiti, anche in vista di dopo cena importanti. Certo non si tratta di cose cotte e mangiate, ma di una preparazione in armonia con i cicli della natura, con lo scorrere lento e sapiente del tempo, con la capacità di saper aspettare.
Si prepara con enorme soddisfazione personale e degli amici ospiti che lo degusteranno.
Perchè è afrodisiaco?
Il NOCINO, noto tra gli afrodisiaci naturali, è consigliato fin dall’antichità come ricostituente naturale e aiuto alle difese immunitarie durante l’inverno. Ha una potente virtù digestiva ed è quindi consigliato dopo pasti troppo calorici e grassi, così come d’uso durante la stagione fredda.
Ogni sorso di NOCINO racchiude il meglio del sole e della magia della primavera.
Com’è noto, un corpo sano, sveglio e reattivo è senza dubbio più portato a godere delle gioie dell’amore!!
Il finocchio selvatico è una pianta spontanea, perenne, dal fusto ramificato, alta fino a 2 m. Possiede foglie che ricordano il fieno (da cui il nome foeniculum), di colore verde e produce in estate ombrelle di piccoli fiori gialli. Seguono i frutti (acheni), prima verdi e poi grigiastri. Del finocchio selvatico si utilizzano i germogli, le foglie, i fiori e i frutti (impropriamente chiamati “semi”).
La raccolta del fiore del finocchio selvatico avviene appena il fiore è “aperto”, normalmente a partire dalla metà d’agosto fino a settembre inoltrato. Il fiore si può usare fresco o si può essiccare, all’aperto, alla luce, ma lontano dai raggi diretti del sole, che farebbero evaporare gli olii essenziali.
In fitoterapia
Si utilizzano i frutti secchi o l’olio essenziale. Contiene: anetolo (da cui dipende il suo aroma), fencone, chetone anisico, dipinene, canfene, fellandrene, dipentene e acido metilcavicolo. L’uso principale (come per le piante simili anice verde e carvi) è quello carminativo, cioè che aiuta ad eliminare i gas intestinali e contemporaneamente ne previene la formazione. Pertanto è utilizzato per chi ha difficoltà digestive, aerofagia, e può essere utile per ridurre la componente dolorosa della sindrome da colon irritabile. Particolarmente indicato nell’allattamento perché, in quanto galattoforo, aumenta la produzione del latte e contemporaneamente previene le coliche d’aria nei bambini. Oltre a ciò sono state riconosciute al finocchio qualità di emmenagogo (in grado di stimolare l’afflusso di sangue nell’area pelvica e nell’utero, e, in alcuni casi, di favorire la mestruazione), diuretico, antiemetico (diminuisce nausea e vomito), aromatico, antispasmodico, antinfiammatorio, tonico epatico.
In Cucina
Del finocchio selvatico, chiamato in cucina anche “finocchina” o “finocchietto”, si usano sia i fiori freschi o essiccati, sia i frutti o “diacheni”, sia le foglie (o “barba”), sia i rametti più o meno grandi utilizzati per cucinare le lumachine di mare o per conciare le olive sotto sale accompagnato con peperoncino e aglio; le foglie si usano fresche e sminuzzate per insaporire minestre, piatti di pesce, insalate e formaggi: nella “pasta con le sarde“, nota ricetta siciliana, le foglie del finocchio selvatico sono uno degli ingredienti essenziali.
I fiori si usano per aromatizzare le castagne bollite, i funghi al forno o in padella, le olive in salamoia e le carni di maiale (in particolare la “porchetta” dell’Umbria). I cosiddetti “semi” si usano soprattutto per aromatizzare ciambelle o altri dolci casalinghi e per speziare vino caldo o tisane. Fanno inoltre parte della ricetta di un biscotto tipico del Piemonte, il finocchino. È in uso nelle regioni costiere del Tirreno, un “liquore di finocchietto”, per il quale s’utilizzano i fiori freschi e/o i “semi” e le foglie.
Curiosità
L’espressione “lasciarsi infinocchiare” deriva dall’abitudine dei cantinieri di offrire spicchi di finocchio orticolo a chi si presentava per acquistare il vino custodito nelle botti. Il grumolo infatti contiene sostanze aromatiche che modificano leggermente la percezione dei sapori, rendendo saporito il successivo assaggio di un vino di qualità scadente o prossimo all’acetificazione.
La comune distinzione tra finocchio femmina e finocchio maschio è solo formale: il primo è di forma allungata e il secondo di forma tondeggiante. Il cosiddetto finocchio maschio, più apprezzato sotto l’aspetto merceologico perché meno fibroso e più carnoso, si ottiene grazie al concorso di fattori ambientali associati alla natura del terreno e alla sua sistemazione superficiale e a un’adeguata tecnica colturale.
Ricette di cucina:
Le infiorescenze giovani, denominate nel Salento “caruselle” (termine che significa appunto, giovinetta), possono essere gustate nelle insalate primaverili, anche se in dosi minime a causa del loro gusto fortemente aromatico, se invece vengono messe, sott’aceto, possono essere utilizzate per tutto l’anno come contorno al lesso, nonché come ingrediente dei sughi alla pizzaiola, nella farcitura delle focacce rustiche e ancora nella farcitura dei panini in accompagnamento al tonno e al provolone, nonché nella guarnitura di bruschette e friselle.
La conservazione in sott’aceto è semplicissima:
Si sterilizzano dei vasi di vetro
Si raccolgono le “Caruselle”, cioè i frutti ancora verdi
Si mettono nel vaso di vetro e si aggiunge aceto bianco salato
Si lasciano in infusione per circa 1 mese per essere usati come contorno al lesso, nonché come ingrediente dei sughi alla pizzaiola, nella farcitura delle focacce rustiche e ancora nella farcitura dei panini in accompagnamento al tonno e al provolone, nonché nella guarnitura di bruschette e friselle.
Pasta con le sarde alla siciliana e finocchietto selvatico
Questa è la più tipica delle ricette siciliane e rappresenta il trionfo della cucina mediterranea.
Ingredienti:
Procedimento:
Pulite le sarde, diliscatele ed eliminate la testa. Fate rosolare un spicchio di aglio in padella, aggiungete le sarde tagliate grossolanamente e fate saltare per qualche minuto.
Lavate il finocchietto selvatico e lessatelo in abbondante acqua.
Scolatelo e tagliatelo grossolanamente.
Nella stessa acqua del finocchio fate cuocere i bucatini e scolateli al dente.
In un tegame con olio bollente mettete la cipolla tritata, fatela rosolare e aggiungete il finocchio, i filetti d’acciuga spezzettati, i pinoli, il concentrato di pomodoro, sale, pepe. Aggiungete le sarde ed amalgamate il tutto.
A parte, in una padella antiaderente, fate tostare un po’ di pangrattato. Unite la pasta al condimento e spolverizzate con il pangrattato.
Sottospecie presenti in Italia:
Pastinaca sativa L. subsp. Sativa che si distingue per fusti angolosi, pelosità ridotta x peli sparsi, foglie con segmenti con base cuneata. Coltivata per uso alimentare e spesso inselvatichita
Pastinaca sativa L. subsp. Sylvestris (Mill.) Rouy & E.G. Camus che si distingue per pelosità densa, foglie grigio pubescenti con segmenti che alla base spesso sono cordati
Pastinaca sativa L. subsp. Urens (Reg. ex Godr.) Celak. che si distingue per fusto cilindrico o appena striato quasi liscio, ombrella terminale a 5÷7 raggi, non o poco maggiore delle laterali.
Famiglia: Apiaceae
Descrizione: Pianta biennale, erbacea, dall’odore pungente, con radice a fittone, affusolata, giallo chiara, carnosa, che nel primo anno produce soltanto un ciuffo di foglie dal quale poi, nel secondo si sviluppa il fusto cavo, angoloso, scanalato, pubescente e ramificato in alto di 40÷120 cm.
Le foglie basali sono dotate di un lungo picciolo inguainante il fusto, sono pennate con 5÷11 foglioline ovali con apice acuto e margine dentato e talvolta inciso in due lobi. Le foglie caulinari sono alterne, le superiori sessili ed amplessicauli e con numero inferiore di foglioline.
I fiori ermafroditi, di colore giallo oro, sono raccolti in ombrellette che a loro volta formano grosse ombrelle del diametro assai variabile da 5÷8 cm e con 5÷15 raggi, mancanti dell’involucro e involucretto, i peduncoli delle ombrelle laterali sono più lunghi di quelle centrali e l’ombrella superiore è sensibilmente più grande di quelle sottostanti.
Fioritura: luglio÷agosto
Habitat: In Italia è comune in tutte le regioni, vegeta nei prati, bordo strada, coltivi , scarpate, terreni limosi e ricchi di sostanze azotate, dal piano fino a 1600 m s.l.m.
Etimologia: Il nome del genere deriva dal latino “pastus” = nutrimento e indica la commestibilità della radice; l’epiteto specifico deriva dal latino “sativum” = coltivato.
Proprietà ed utilizzi:
Specie commestibile officinale.
Contiene olio essenziale, sostanze grasse, furocumarina, pectine, carboidrati, vitamina C.
Pastinaca sativa un tempo era usata nella medicina popolare come diuretico e digestivo.
La Pastinaca è nota soprattutto per le proprietà alimentari delle sue radici, che oltre ad essere ricche di proteine, amidi e zuccheri, hanno un gradevole sapore simile a quello delle carote; la tradizione popolare ritiene la Pastinaca un cibo utile alle persone deboli, anziane o convalescenti.
È un ottimo alimento dietetico, infatti 100 g di radice, corrispondono a 22 kcal e contengono 12 g di fibre.
Le estremità delle ramificazioni possono essere impiegate come spezia.
Gli antichi romani attribuivano alla Pastinaca proprietà afrodisiache e spesso la cucinavano con il miele.
La radice viene impiegata, soprattutto nel nord Europa in molte preparazioni alimentari e anche in bevande fermentate tipo birra.
Il suo uso è andato scemando con la scoperta dell’America e delle patate che l’hanno gradatamente sostituita, gli inglesi che la chiamano “parsnip “continuano ad usarla, mangiandola durante tutto l’inverno, raccolta dopo le gelate.
Un tempo i fiori erano impiegati per tingere di colore giallo la lana.
Attenzioni per il raccolto ed il consumo:
Pastinaca sativa subsp. urens (Req. ex Godr.) Čelak può provocare dermatiti da contatto e può essere responsabile, in soggetti particolarmente sensibili, di ustioni di 2° grado.
Questa sottospecie ma anche le Pastinache in generale contengono furanocumarina, una sostanza che può provocare reazioni cutanee aggravate per fotosensibilizzazione, sotto gli effetti dei raggi solari.
A questo proposito è stato accertato da ricercatori dell’ Università dell’ Illinois, che la Pastinaca sativa, quando è aggredita da piccolo ma vorace bruco (Trichoplusia ni) produce nelle zone circostanti a quella del morso, una quantità 80 volte superiore alla norma di furanocumarina, sostanza che produce a scopo difensivo.
Attenzione: Le applicazioni farmaceutiche e gli usi alimurgici sono indicati a mero scopo informativo, si declina pertanto ogni responsabilità sul loro utilizzo a scopo curativo, estetico o alimentare
Nome italiano: Iperico
Molto comune nei terreni asciutti, lungo i margini delle strade, ai bordi di campi e nelle radure, cresce fino a 1600 m d’altitudine, la pianta ha un corto rizoma e un fusto eretto fino a circa 1 m., legnoso e ramificato. Le foglie sono opposte ovali o oblunghe, picchiettate di minuscole ghiandole trasparenti (contenenti l’olio essenziale) che in controluce assomigliano a forellini e gli conferiscono l’appellativo di “perforato”. Questa caratteristica spinse i contadini della Vandea a sceglierlo come l’erba più adatta a simboleggiare il corpo del Cristo flagellato; e come riferisce Louis Charbonneau-Lassay, fu chiamato anche con il nome di «erba della Flagellazione».
I fiori composti di 5 petali, sono di colore giallo intenso, riuniti in una sorta di corimbo, compaiono in estate, la sua fioritura massima è raggiunta a fine giugno. Se stropicciati colorano la pelle di rosso. Tutta la pianta emana un odore gradevole.
PROPRIETA’
“Serbatoio” naturale di carotene (provitamina terpenica contenuta nelle carote e in numerosi vegetali a cui conferisce colorazione rossa o arancio, che il nostro organismo trasforma in vitamina A) e flavonoidi (ipericina, rutina, quercetina e l´iperoside). Molto usato anche per le sue proprietà antidepressive e antivirali. Si usa soprattutto per piaghe, ulcerazioni, pruriti, emorroidi. In cosmesi per pelli secche, screpolate, atoniche.
E’ efficace anche in caso di contusioni o schiacciamento delle dita ed i flavonoidi contenuti riducono le infiammazioni delle ferite. Ha un effetto benefico in caso ustioni e eritemi, traumi, i dolori neuro-muscolari, sciatica.
L’olio di iperico previene l’infezione delle ferite, riduce il tempo di guarigione delle ustioni, è antinfiammatorio, antisettico, cicatrizzante. La crema aggiunge le proprietà della cera d’api vergine che ha un effetto antibiotico e lenitivo sulla pelle. E’ molto utile per guarire le piccole ferite e la secchezza della pelle quando si fanno lavori manuali in agricoltura.
L’azione dell’olio di iperico sulle ustioni
Perché le proprietà dell’olio di iperico si espletino al massimo, è bene applicarlo direttamente sulle piaghe provocate da ustioni sulle quali è in grado di eliminare totalmente il dolore già dopo pochi minuti e fintanto che si tiene la piaga coperta con olio di iperico il dolore non ricompare. La cicatrizzazione delle lesioni, anche di quelle più gravi, avviene molto rapidamente e senza i raggrinzamenti tipici delle cicatrici da ustioni.
NOTE DI COSTUME E TRADIZIONI
E’ detto anche “erba di San Giovanni” – “fohanniskraut” in Germania, perché una leggenda un po’ meno antica, lega l’iperico al San Giovanni il Battista, che fu decapitato per volere di Salomè. Anche per questo racconto l’iperico venne germogliato dal sangue, in questo caso di San Giovanni. In virtù della leggenda o per il fatto che la sua fioritura si manifesti intorno alla seconda metà di giugno (23 giugno viene ricordato San Giovanni) l’Iperico è conosciuto come Erba di San Giovanni.
Ippocrate e Dioscoride sostenevano che il suo nome significava «al di sopra», ossia più forte delle apparizioni d’oltretomba, del mondo infero. Per questo motivo era soprannominato anche «cacciadiavoli».
Guariva i morsi dei serpenti, ma figurava anche fra i rimedi consigliati contro gli attacchi di epilessia e le bruciature. Ancora oggi è usato contro le ustioni, dato che l’antica sapienza già lo indicava come potentissimo strumento contro Satana e le sue opere, intese appunto a gettare il cristiano nei regni infernali per bruciare nelle fiamme eterne.
Una volta in molti Paesi europei coloro che danzavano nella notte di San Giovanni intorno al fuoco si cingevano le tempie con fronde di questa pianta. Poi, spenti i fuochi, le gettavano sui tetti delle case per preservarle dal fulmine.
Nel Medioevo veniva appeso alle finestre e sulle porte per impedire ai demoni di entrare nelle case. E quando nemmeno le preghiere degli esorcisti erano riuscite a liberare una donna indemoniata, le si mettevano in seno alcune sue foglie e altre si sparpagliavano nella sua abitazione.
Era anche usato durante le crociate dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme per curare le ferite. In effetti, è una delle piante più efficaci nella medicazione delle ferite sanguinanti, e tutti i vecchi libri di medicina raccomandavano il balsamo ricavato dalle foglie e dai fiori macerati nell’olio.
La ricetta più antica per la preparazione dell’olio di iperico prevede la raccolta manuale dei fiori, su terreni lontani dal traffico e situati in zone incontaminate. I fiori ancora freschi vanno messi in un vasetto di vetro a chiusura ermetica, e ricoperti di olio extravergine di oliva spremuto a freddo. Si chiude il contenitore e si espone al sole per 40 giorni.
Già dopo qualche giorno l’olio assume un’intensa colorazione rosso rubino. È necessario capovolgere il vaso di tanto in tanto al fine di ottimizzare l’estrazione dei principi attivi. Terminato il tempo di esposizione al sole, si recupera tutto l’olio, filtrandolo con una stoffa sottile, per poi travasarlo in una bottiglia di vetro scuro che abbia sempre la chiusura ermetica.
Come si prepara la crema di iperico.
Per fare la crema: mettere a scaldare 700 g di olio di iperico a bagnomaria (cioè in un tegamino messo dentro ad un tegame più grande pieno di acqua, messo su fuoco moderato).
Quando l’olio è caldo (50-60 gradi) aggiungere 300 g di cera vergine di api a pezzetti e girare lentamente fino a che sia sciolta completamente. La quantità di cera varia a seconda della densità che si desidera ottenere, va da un quarto a metà del peso dell’olio.
Spegnere la fiamma ed aggiungere 10 cc di essenza di gelsomino (o altra essenza profumata).
Versare la crema nei vasetti ancora calda.
Famiglia: Asteraceae
Nome italino: Elicriso
Il suo nome deriva dal greco elios=sole e chrysos=oro, pianta solare per il colore dei suoi fiori e l’habitat che predilige per la sua crescita. É una asteracea, di facile riconoscimento, gli steli e le foglie di forma lanceolata hanno un colore verde, verde grigiastro, al tatto sono vellutati. Il loro delizioso profumo è inconfondibile, un mix di camomilla, menta e liquirizia insieme. Per questa sua proprietà l’elicriso in molte regioni italiane è chiamato volgarmente liquirizia, da non confondere però con la pianta della liquirizia.
La fioritura avviene tra giugno e luglio, i fiori vanno raccolti quando sono ben aperti ma ancora ben freschi, il periodo migliore per la loro raccolta va dal 21 giugno a tutto settembre. I fiori vanno essiccati al buio e al caldo, appesi a mazzetti a testa in giù o per circa 10 ore a 40° con un essiccatore elettrico, avremo così anche da diffusione delle sue essenze.
L’elicriso è particolarmente benefico per tutti i tipi di herpes e di eczemi, irritazioni della pelle, dermatiti, psoriasi. Ha un buon effetto antirughe ed elasticizzante ed è utile, in sinergia con altre piante come l’iperico o la calendula, nei trattamenti delle scottature e delle ferite.
É un ottimo antistaminico naturale, utile per tutti i tipi di allergie ma attivo soprattutto sulle dermatiti allergiche e da contatto, sulle quali agisce sia dall’interno che dall’esterno. Per uso interno l’ideale è la tintura madre perché l’infuso ha un sapore un po’ forte e non molto gradevole, per uso esterno invece l’oleolito è il miglior metodo, ottimo da solo, miscelato ad altri oli sinergici o come base per unguenti.
Per fare l’oleolito si raccolgono i capolini con delle forbici mettendoli direttamente in un vaso di vetro, nel caso in cui siano umidi si mettono stesi in un piatto e lasciati asciugare. Il vaso di vetro va riempito fino a 2 cm dal bordo, poi si coprono con d’olio extra-vergine d’oliva con estrazione a freddo.
Diversi sono i metodi per ottenere l’oleolito, c’è chi dice che solo l’oleolito di iperico si fa da pianta fresca e tutti gli altri vanno fatti da pianta essiccata, chi dice che solo l’iperico si espone alla luce del sole, le altre piante invece vanno protette dai raggi e devono prendere solo il calore. Noi crediamo che la pianta fresca dia di più rispetto alla pianta essiccata e che il sole favorisca il passaggio dei principi attivi dalla pianta al solvente oleoso. Dopo averlo mescolato bene si lascia macerare per circa 20 giorni al sole, la sera si ritira in casa. In giornate molto calde, durante le ore centrali e meglio ritirarlo in casa. Dopo i venti giorni di macerazione si filtra con un colino a maglia finissima per eliminare il grosso della pianta, strizzandola bene per estrarre tutto l’olio assorbito. Poi si fa una seconda filtratura usando un imbuto e un pezzo di tessuto o un filtro da caffè americano. Il procedimento richiede molto tempo ma alla fine si otterrà un oleolito molto limpido. Il prodotto andrà conservato in un ambiente buio e fresco per un anno circa. Il profumo è molto piacevole e potrebbe essere potenziato aggiungendo circa dieci gocce di olio essenziale di elicriso (dose per un barattolo da 250 ml), ciò renderà il suo effetto terapeutico più potente.
Provate a aggiungere dell’elicriso tritato al chutney (salsa di accompagnamento agrodolce e per questo contiene frutta o verdura più zucchero e aceto per conferire alla salsa proprio un sapore caratteristico) e impasti per frittelle, o mettete qualche rametto di elicriso nel pollo al forno.
I fiori di elicriso essiccati e mixati con fiori di finocchio selvatico sono un ottimo ingrediente per le tisane.
Famiglia: Chenopodiacee
Nome volgare: Farinaccio, farinello, entrambi riferiti alla pruina color bianco presente sul retro della foglia
Etimologia: Il nome del genere ha il significato di “piede d’oca”, con vago riferimento alla forma romboidale delle foglie, mentre album fa riferimento alla sostanza bianca presente sulla pagina inferiore delle foglie.
Habitat: Pianta infestante, tipica dei ruderi dei riporti, dei prati incolti e aridi e dei margini delle strade. Presente ovunque, dal piano all’alta collina.
Descrizione: La pianta è alta oltre il metro, con radice fittonante, ha fusto per lo più eretto, angoloso e ramificato, e foglie romboidali alterne (lanceolate quelle apicali), leggermente dentate, quasi bianche da giovani sulla pagina inferiore per via della presenza di una pruina bianca
Proprietà: Nella medicina popolare per il suo contenuto di ferro, vitamina A, B, C, veniva usata come antiflogistica, lassativa, antireumatica e antielmintica. Viene usata anche per problemi dentali, contro le punture di insetti e le scottature. I semi contengono Lisina, precursore di una vitamina come la Niacina, essenziale per l’organismo umano che non è in grado di sintetizzarla. Dai giovani germogli si ottiene un colorante verde, mentre dalle radici si possono ricavare saponi.
La pianta era conosciuta fin dai tempi preistorici, infatti i suoi semi sono stati rinvenuti sia in Europa: Danimarca (uomo di Tollund), Svizzera, Spagna e nelle Isole Ebridi, che in Messico e negli Stati Uniti, dove i semi venivano mescolati a farine ed entravano a comporre pani o poltiglie. Ancora oggi gli indiani del Nordamerica usano i semi a scopo alimentare. Si ritiene che in passato fosse anche coltivata in Europa, oggi nelle coltivazioni è stata sostituita dagli spinaci. Oggi viene considerata infestante di coltivazioni di patate, cereali e ortaggi.
Uso in cucina: Si possono utilizzare le foglie più tenere e i giovani getti, come l’altra chenopodiacea più conosciuta: il Chenopodium bonus-henricus. Il suo sapore è decisamente preferibile a quello degli spinaci. Le parti tenere possono essere lessate (meglio cotte a vapore per pochi minuti) e poi saltate in padella con olio, aglio e peperoncino. Possono essere usate anche per fare ottimi risotti o come ripieno di torte e ravioli. Viene usata anche per colorare paste fresche. La pianta per il suo contenuto di acido ossalico, specie se cresce in campi coltivati ricchi di nitrati o di azoto, va usata in piccole quantità, soprattutto cotta, perché la cottura riduce di molto l’acido ossalico.
Famiglia: PortulacaceeNome volgare: Porcellana, Porcacchia, Erba grassaCaratteristiche morfologiche :
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fondamentale di piatti tipici, soprattutto in Messico e Giappone, e non può mancare nella classica insalata greca. La si può consumare in insalata, bollita, o fritta, con una versatilità culinaria notevole, e solo il suo comportamento infestante la fa accomunare alle erbacce e non alle verdure.
Ricetta di Vellutata di Portulaca Ingredienti:
Procedimento
Varianti |
FITOALIMURGIA.
Per molti questa parola è sconosciuta, perché molti vocabolari la escludono. L’etimo di alimurgia deriva dalla contrazione del latino “alimenta urgentia”, cioè nutrimento in caso di necessità, a cui è stato aggiunto il prefisso fito per indicare che si tratta di piante. Molte parole latine derivano a loro volta dal greco dove “alymos” = alimento è formato da “lymos” = fame e dal prefisso “a” con funzione privativa per cui alimento che fa sentire senza fame. “Urgentia” deriva dal greco “ergon” = attività e così “alimurgia” sta a significare “attività che calma la fame”. La prima comparsa ufficiale della parola fu nel 1767 quando venne pubblicato un libro con le notizie riguardanti ciò che veniva usato dalla popolazione per sfamarsi durante le carestie (era appena passata quella del 1764), le pestilenze, le guerre, le calamità naturali; eventi che impedivano la consueta coltivazione dei campi con relativo raccolto. Chi scrisse questo De Alimenta Urgentia con sottotitolo “alimurgia”, ovvero modo di rendere meno gravi le carestie, proposto per il sollievo dei popoli fu Giovanni Targiotti-Tozzetti, medico fiorentino allievo del botanico Pier Antonio Micheli e custode del Giardino dei Semplici di Firenze, che era molto attento alle necessità del popolo anche al di fuori dei problemi strettamente terapeutici e che, perciò, entrò in polemica con la classe medica intollerante di tale scelta. L’opera di Targetti-Tozzetti rimase nella storia e fu ripescato alla fine dell’ultimo conflitto quando, nei paesi dell’Est Europeo e specialmente in Jugoslavia, si sviluppò una capillare ricerca per raccogliere notizie e indicazioni su tutto ciò che il popolo aveva mangiato durante la fame di quei giorni bui. La ricerca in campo botanico fu coordinata e diretta dal professor Tukakov dell’Università di Belgrado che, isolandosi in un territorio abbastanza ampio con molti suoi allievi nutrendosi per alcuni mesi di sole piante spontanee sperimentando e confermando, se era il caso, le informazioni popolari. Questo lavoro servì per redigere una carta fitogeografica utile per conoscere la reperibilità dei vegetali spontanei. Contemporaneamente una commissione USA raccoglieva notizie sulle piante spontanee eduli, usate in Europa; tutto ciò per aggiornare quei manuali di sopravvivenza in dotazione alle truppe da sbarco.